Siamo in pieno cambiamento climatico. Il mondo è già più caldo di 1,1°C rispetto agli albori della rivoluzione industriale, con un impatto significativo sul pianeta e sulle vite delle persone. Se le attuali tendenze dovessero continuare, le temperature globali potrebbero già aumentare dai 3,4 ai 3,9°C in questo secolo, causando effetti climatici distruttivi su larga scala.
Secondo il Greenhouse Gas Bulletin 2019 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), i livelli dei gas a effetto serra che intrappolano il calore nell’atmosfera hanno raggiunto un nuovo record. Ciò implica che nel lungo periodo le future generazioni dovranno confrontarsi con effetti sempre più gravi del cambiamento climatico, tra cui l’aumento delle temperature, un clima più estremo, lo stress idrico, l’innalzamento del livello del mare e l’alterazione degli ecosistemi marini e terrestri.
Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha evidenziato, nel suo Emissions Gap Report 2019, che le emissioni sono aumentate dell’1,5% all’anno, nell’ultimo decennio, nonostante l’aumento dell’azione sul clima. Le emissioni globali di gas serra sono salite a 55,3 gigatonnellate di CO2 equivalente nel 2018, e vanno tagliate del 7,6% ogni anno dal 2020 al 2030, per contenere entro fine secolo l’aumento medio della temperatura a 1,5 gradi, come auspicato a Parigi nel 2015.
Le Conferenze delle Parti – COP
Con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), firmata al Vertice della Terra del 1992 a Rio de Janeiro, gli Stati hanno concordato di “stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera” per prevenire il pericoloso impatto dell’attività umana sul sistema climatico. Ogni anno dal 1994, data in cui la Convenzione è entrata in vigore, si tiene una “Conferenza delle Parti”, o COP, per discutere su come procedere.
In occasione della COP21 di Parigi del 2015 i governi firmarono un accordo, nel quale tutti i Paesi hanno concordato di mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine e di puntare a limitare l’aumento a 1,5°C, dato che ciò ridurrebbe in misura significativa i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici.
Dopo il sostanziale fallimento della COP25 di Madrid (2-13 dicembre 2019), a novembre 2020, in occasione della COP26 che si terrà a Glasgow, in Gran Bretagna, i Paesi che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi dovranno indicare nuovi ulteriori impegni di riduzione dei gas serra da raggiungere entro il 2030. Ma secondo il direttore esecutivo dell’Unep, Inger Andersen:
Non si può aspettare sino alla fine del 2020. Dalle città alle regioni, agli Stati, dai singoli alle piccole comunità, alle aziende, ciascuno deve agire adesso” tagliando i gas serra quanto più possibile e quanto prima. Altrimenti l’obiettivo dell’1,5 sarà ormai fuori portata prima del 2030, perché ogni anno di ritardo oltre il 2020 comporta la necessità di tagli più rapidi, che diventano più costosi, improbabili e poco pratici.
I paesi del G20 rappresentano in totale il 78% di tutte le emissioni, ricorda l’Unep, ma solo cinque si sono impegnati a raggiungere zero emissioni entro il 2050.
Migrazioni e cambiamenti climatici
Sin dai tempi più antichi, l’umanità è in movimento. Alcune persone si spostano per cercare nuove opportunità e prospettive economiche. Altre per scappare a conflitti armati, povertà, mancanza di cibo, persecuzioni, terrorismo o violazioni e abusi dei diritti umani. Altre ancora lo fanno in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici, disastri naturali (alcuni dei quali possono essere collegati ai cambiamenti climatici) o altri fattori ambientali. Molti si spostano per una combinazione di queste ragioni.
Sono le considerazioni contenute nella Dichiarazione di New York su rifugiati e migranti, adottata il 19 settembre 2016 durante la 71° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto per la prima volta l’impatto dei cambiamenti climatici e ambientali quali fattori significativi nelle migrazioni.
Per l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, le possibilità di essere sfollati a causa di disastri ambientali sono triplicate rispetto a 40 anni fa. Secondo uno studio pubblicato dalla Banca mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate al mondo provocheranno entro il 2050 migrazioni interne di 140 milioni di persone. Il flusso migratorio interno, da qui al 2050, potrebbe così riguardare 86 milioni di persone in Africa, 40 milioni in Asia del Sud, 17 milioni in America Latina.
“Il cambiamento climatico e le catastrofi connesse ad esso distruggono milioni di vite, ma per la comunità internazionale i migranti ambientali sembrano non esistere” sottolinea Caritas Italiana. Attualmente infatti i migranti ambientali non godono di alcun riconoscimento giuridico specifico e, dunque, delle relative tutele. Si tratta di un drammatico paradosso, in cui gli effetti distruttivi del cambiamento climatico impattano maggiormente sui paesi e sulle persone più poveri, che sono anche i minori responsabili del degrado ambientale: si riconosce che questo tipo di impatto è ormai una causa prevalente di migrazione, ma questo collegamento non viene riconosciuto in quanto tale all’interno di leggi e accordi internazionali”